Del Butô si cominciò a parlare,
in Europa, intorno al 1980.
Ma era nato vent'anni prima, a
Tôkyô. Il pubblico, sia in
Europa occidentale che nel Nord
America, scopriva qualcosa di
nuovo e sorprendente, di forza
dirompente e di intensissima
capacità comunicativa. La
critica si cimentava, con
qualche difficoltà, nella
ricerca di definizioni adeguate
per quella strana danza,
considerandola, altenativamente:
antitradizionale o ispirata al
teatro popolare giapponese del
XIX secolo, antioccidentale o
epigona dell'Espressionismo
tedesco, post-atomica o
primitiva, erotica o intimista,
provocatoria o glaciale,
corporale o metafisica...
Descriverlo non era (e non è)
facile, evidentemente.
Qualcuno provò anche a
individuare alcuni elementi che
sembravano ricorrenti, quali un
certo tipo di gestualità, la
predominante lentezza dei
movimenti, la nudità dei corpi,
le atmosfere surreali, e molto
altro. Ma si trattava di
osservazioni troppo riduttive,
probabilmente dettate a volte da
una reazione un poco infastidita
dalla irriducibilità di quella
danza agli schemi consueti.
In realtà, il Buto non ha mai
avuto e non ha tuttora un modo
di espressione fisso e ben
definito. Anzi, ha sempre
rifiutato qualunque tentazione a
costruire un "sistema", non ha
mai assunto una forma definita,
non ha aperto alcuna scuola.
Include danzatori diversi per
stile o per approccio allo
spazio scenico, che possono
mostrare immagini degradate e
grottesche, oppure di grande
bellezza e dolcezza. E ha
capovolto la concezione estetica
della danza.
Il Butô nacque insieme agli anni
Sessanta, un periodo
straordinariamente fecondo per
le arti e lo spettacolo, denso
di importanti cambiamenti in
Giappone e nel mondo, sotto il
profilo sociale, economico,
politico, culturale.
L'avanguardia teatrale, che
includeva la danza, era alla
ricerca di una "nuova identità"
giapponese e si contrappose,
perciò, sia alla tradizione
classica autoctona che alla
modernità occidentale.
Il Butô spezzò la gabbia di
regole imposte al danzatore
giapponese, rifiutando
contemporaneamente le forme
della danza classica e moderna
europea e nordamericana. Ecco
allora una danza non narrativa,
opposta all'elevazione tipica
del balletto, estranea al
movimento che crea disegni nello
spazio della danza moderna.
Condivideva con il teatro di
quegli anni - tra danza e teatro
non c'era alcun confine
visibile, allora -
l'aggressività verso il pubblico
e l'uso abituale della
provocazione, soprattutto a
proposito dei tabù sessuali ed
estetici, il richiamarsi a miti
arcaici, lo stile epico e i
rituali, il kitsch, il deforme,
l'assemblaggio sulla scena di
elementi disparati e opposti, la
creazione di movimenti mai visti
prima. Quei giovani erano
animati da un'ansia di sincerità
e di essenzialità che li
spingeva alla rivolta contro
l'ipocrisia e la superficialità
dei rapporti umani. Non volevano
parlare usando il corpo, ma
lasciare che questo mostrasse la
sua verità. Una danza
profondamente e manifestamente
espressione di una particolare
giapponesità, inizialmente fu
tuttavia sensibilmente
influenzata dalla letteratura
"erotica/eretica" francese,
anche se Tatsumi Hijikata -
insieme a Kazuo Ôno, fondatore
del Butô e imprescindibile
personalità-guida per tutti i
danzatori - abbandonò tutti i
riferimenti alla cultura europea
negli anni Settanta. Quanto alle
ascendenze espressioniste
tedesche, in realtà si può
parlare solo di una conoscenza
indiretta del lavoro di alcuni
maestri europei (Harald
Kreuzberg e Mary Wigman,
essenzialmente), trasmessa a
Hijikata e Ôno attraverso
l'insegnamento di danzatori
giapponesi che avevano studiato
per breve tempo in Germania.
Ma che cos'è dunque il Buto?
Una spiegazione etimologica
viene fornita dal coreografo e
danzatore Kô Murobushi: bu è il
medesimo ideogramma contenuto in
Kabuki e significa ballare o
muoversi elegantemente, riferito
principalmente alla parte
superiore del corpo; tô
significa calpestare e indica
essenzialmente il movimento dei
piedi. Dunque, il Butô potrebbe
definirsi il prodotto del
dialogo intimo tra il movimento
delle mani e quello dei piedi,
tra calma e violenza, tra Apollo
e Dioniso. Non una tecnica, ma
una relazione profonda tra il
corpo e la natura. Ushio
Amagatsu, coreografo e danzatore
del Sankai Juku, dice a sua
volta che:
Si può definire la danza Butô
soprattutto per ciò che non è.
Non ha niente a che vedere con
la danza occidentale, che vuole
creare delle forme e utilizza le
tensioni. Qui invece si parte
dal rilassamento, dal corpo
svuotato. Il Butô non è una
tecnica, ma un metodo per
risalire attraverso il corpo
alle origini dell'esistenza e
per rispondere alla domanda "chi
siamo?". Ad essa ciascuno
risponde secondo la propria
esperienza di vita quotidiana, i
suoi incontri, il suo modo di
vedere, di fare, di sentire.
Tant'è vero che esistono molte
compagnie Butô e ognuna lavora
in maniera diversa.
Pur essendo ben riconoscibile
nel panorama della danza
contemporanea internazionale, è
difficile collocarlo all'interno
del nostro orizzonte mentale. Ci
sono però alcuni denominatori
comuni a tutti i danzatori Butô,
al di là delle diversità - anche
profonde - tra le poetiche di
ognuno di loro. Qui è possibile
soltanto accennare molto
brevemente a qualcuno di essi.
Per cominciare, il corpo stesso
del danzatore, oggetto e
fondamento principale della
ricerca e del lavoro quotidiano;
il Butô mostra l'incapacità del
corpo a fare ciò che detta la
volontà; non è il corpo che si
adegua al movimento astratto, ma
è il movimento che si adatta al
corpo, esaltando la visceralità,
i sensi, il legame con la terra.
Una ricerca feconda, i cui
risultati sono diventati
patrimonio della danza mondiale.
In secondo luogo, la negazione
dell'Io, dell'individualità
umana, attraverso un meccanismo
di decostruzione che turba il
pubblico. Strumento privilegiato
è qui la metamorfosi, attuata
con i soli mezzi corporei, nella
quale non è importante la forma
dell'animale o della cosa, ma la
capacità di sperimentare
un'altro tipo di esistenza. La
visione del mondo può apparire
allora nella prospettiva di un
insetto, di un feto, di un nano.
Altra pratica comune, con la
medesima finalità, è il
dipingere di bianco il volto o
anche tutto il corpo.
Comune è anche l'atteggiamento
critico verso il razionalismo,
come spiega il danzatore
Mitsutaka Ishii, secondo il
quale la mentalità giapponese
porta a "tastarci da fuori per
capire cosa c'è dentro,
esaminarci col cuore"; mentre la
scienza e la medicina europee
pretendono di analizzare lo
spirito, non comprendendo che
"c'è un regno del cuore fatto di
tutte le cose che abbiamo
imparato o vissuto, che non
bisogna invadere ma lasciare
intatto". Danzare per esprimere
più intensamente possibile i
propri mondi interiori. Danza,
quindi, come scelta di vita e
non scienza di organizzazione
dello spazio.
Poi, la ricerca del contatto e
dello scambio con il mondo dei
morti. Hijikata scriveva nel
1984 alla danzatrice Natsu
Nakajima, alla vigilia della sua
partenza per un tour europeo,
che "noi stringiamo le mani ai
morti, che ci incoraggiano ad
andare al di là del corpo. È
questo l'illimitato potere del
Butô". Kazuo Ôno cerca
costantemente l'unione dei morti
e dei vivi attraverso l'amore.
Altri denominatori comuni: l'uso
della tensione muscolare, del
"vuoto", del ritmo. La capacità
di mantenere una estrema,
continua tensione corporea è
rimarchevole e produce, tra
l'altro, una corrispondente,
forte tensione psichica negli
spettatori. Il "vuoto", ovvero
il ma, è in realtà un vasto
spazio dove le tante possibilità
si mescolano fino a far emergere
un'idea. Il ritmo è dato da un
movimento - spesso molto lento -
che oscilla tra integrazione e
disintegrazione, tra caos e
quiete. Il pubblico è costretto
a essere attivo, a usare
l'immaginazione per immergersi
nel processo creativo, per
osservare le sottigliezze, le
variazioni minime. Mostrare lo
scorrere del tempo, alterandone
la percezione abituale, è di
fondamentale importanza per il
Butô.
Infine, la pratica
dell'improvvisazione. Si tratta
di una scelta altamente
impegnativa e rischiosa. Gli
esiti oscillano dalla più pura
spiritualità alla più scatenata
(o sconcertante) fantasia.
Sempre, in ogni caso,
l'improvvisazione svela il mondo
personale del danzatore e lo
rende più vicino agli
spettatori. Forse sarà superfluo
precisare che si tratta di
tutt'altra cosa dal procedere a
caso e in maniera imprecisa.
Va sottolineato il fatto che
moltissimi danzatori, di tutti i
paesi, hanno avuto in questi
anni esperienze di lavoro comune
o di studio con danzatori Butô.
Ciò ha significato, per un
verso, che non sono più soltanto
i giapponesi a praticarla;
dall'altro, che la sua influenza
sulla danza moderna - di cui è
parte, a pieno titolo - ha
prodotto e continua a produrre
effetti molto interessanti.
Il Butô, presente da quasi un
ventennio a tutti i più
importanti festival
internazionali di danza,
continua a espandere il suo
raggio d'azione: dopo aver
stabilito solide basi in paesi
come la Francia, la Germania,
gli Stati Uniti, negli ultimi
anni la sua vocazione al
nomadismo lo ha portato in altre
zone del mondo: Russia, Messico,
Taiwan, Svezia, Brasile,
Bulgaria, Corea, Ungheria... E
sembrerebbe anche che, dopo le
fugaci apparizioni del passato,
stia prendendo sempre più spesso
la strada dell'Italia. |