Eccellenza, signor prevosto,
signor sindaco, signore e
signori, buon pomeriggio.
Il ricordo consapevole dei molti
ieri che hanno preceduto la
nostra quotidianità rende da una
parte più profondi, dall’altra
più liberi, i nostri giorni e i
nostri luoghi, troppo spesso
sentiti come spenti soltanto
perché incompresi. Per questo
credo che ogni occasione di
ricordo del nostro passato, come
questa, sia sempre utile ed
importante. Ringrazio dunque
cordialmente per il graditissimo
invito a festeggiare oggi qui,
insieme a tutti voi, il
compleanno, per così dire, della
parrocchia di Buto:
l’anniversario della sua
costituzione. Era infatti il 15
giugno 1657 quando il vescovo di
Brugnato, mons. Giovambattista
Paggi, decretava lo smembramento
di Buto dalla parrocchia di
Costola, inaugurando una nuova
autonomia ecclesiastica tuttora
rigogliosa, come dimostra
l’ottima organizzazione di
queste giornate celebrative.
La comunità parrocchiale ricorda
dunque tre secoli e mezzo di
vita: un ricchissimo bagaglio
culturale che si innesta del
resto su una storia più antica,
millenaria, anch’essa leggibile
ancora, seppure con maggiore
fatica, nel nostro presente.
Intorno a noi si possono evocare
tracce di insediamenti liguri
(persino suoni della lingua di
questa popolazione sopravvivono,
come fossili, nei nostri
dialetti), poi liguri-romani. Le
intitolazioni delle chiese
lasciano supporre si siano
susseguite presenze prima
bizantine (è ipotizzata, a
Focetta, la dedica della chiesa
a S. Pantaleone, mentre non
lontano, a Teviggio, la
parrocchiale porta il titolo di
S. Quirico), poi longobarde (S.
Michele). È del resto proprio
sotto la protezione dei
longobardi che, da Bobbio, i
monaci irlandesi di S. Colombano
irradiarono i loro insediamenti
civilizzatori, diffondendo
capillarmente la coltura della
terra, lungo la dorsale
appenninica, strada naturale,
facilmente percorribile, anche
senza rilevanti interventi di
manutenzione, dopo l’eclissi
dell’impero romano, monumentale
costruttore della prima rete
viaria europea.
Ai Longobardi successero i
Franchi che radicarono il
feudalesimo. Il territorio fu
organizzato nella marca degli
Obertenghi e da questi ultimi
concesso in vassallaggio ai
Fieschi, cui praticamente rimase
sino all’età moderna, quando,
dopo il fallimento della celebre
congiura, contro Andrea Doria
(1547), detta appunto dei
Fieschi, perché da loro
capeggiata, fu inglobato nel
dominio della Repubblica di
Genova.
Tutte questi complessi
avvicendamenti, che paiono
ancora più repentini in una
succinta esposizione come quella
appena conclusa e riflettono,
nelle nostre valli, i riverberi
dei più vasti mutamenti storici
europei, sono ben delineati,
nonostante le grandi difficoltà
dovute alla penuria di studi
dedicati al territorio, nel
volume di Gabrovec, opera che la
parrocchia riceve oggi come il
più illustre tra i doni di
compleanno.
Veri protagonisti della ricerca
di Gabrovec sono tuttavia gli
archivi della parrocchia di Buto
e della diocesi di Brugnato,
quest’ultimo oggi conservato
nell’Archivio storico diocesano
che ha sede in Sarzana; archivi
nati entrambi nello spirito del
concilio tridentino, fragili
testimoni di fede e di vita
secolari.
Ho dunque creduto opportuno
dedicare il mio piccolo
intervento principalmente ad un
sintetico inquadramento generale
di queste due fonti storiche,
per favorirne –questo almeno è
l’auspicio una migliore
comprensibilità, riservandomi
tuttavia ancora un breve spazio
per proporre una modesta chiave
di lettura delle informazioni
raccolte nei due archivi. Ho
preferito invece non
avventurarmi in una rassegna
delle millenarie vicende
storiche dell’insediamento di
Buto, sia perché troppo tempo
richiederebbe un’esposizione
problematica, per quanto rapida,
di tracce millenarie (che, a mio
giudizio, occorrerebbe studiare
ancora approfonditamente, con
l’aiuto, tra l’altro, di
discipline altamente
specialistiche, a me ignote,
come, prima fra tutte,
l’archeologia medioevale) sia,
soprattutto, e già si è detto,
perché il volume, che oggi viene
presentato al pubblico, delinea
già chiaramente la storia di
questo territorio e le mie
parole non potrebbero risultarne
che una brutta ed inutile copia
Premessa necessaria alla nostra
conversazione è determinare cosa
sia un archivio. Giova
probabilmente ricorrere
all’insegnamento classico
dell’archivistica, secondo il
quale si definisce archivio un
insieme organico di documenti
prodotti da un ente
nell’esercizio delle sue
funzioni. È possibile dedurre
immediatamente due
considerazioni. La prima: un
archivio non si può costruire,
come una biblioteca, ma nasce
quasi spontaneamente, per
sedimentazione, dall’attività
concreta di un ente. La seconda:
un archivio conserva
testimonianza degli atti
giuridici di cui l’ente
produttore è autore, dunque il
valore della documentazione
archivistica come fonte storica
è ben diverso da quello che può
avere una memoria od un ricordo
individuali.
È a questo punto ormai ovvio che
per meglio comprendere un
archivio ed i documenti di cui è
composto, è dunque necessario
studiare la storia dell’ente che
lo ha prodotto.
L’archivio parrocchiale e
l’archivio vescovile, dal pieno
Cinquecento, sono, come già
accennato, emanazioni dello
spirito riformatore del concilio
di Trento. Soltanto cercando di
comprendere questo spirito ormai
lontano, ma mai spento, anche
dopo il tempestoso afflato
innovatore del concilio Vaticano
II, è quindi possibile leggere
le fonti con una visuale più
proficua.
Riforma e controriforma:
semplificando forse troppo
semplicisticamente, si potrebbe
sostenere, che queste due siano
le nature che animano il
concilio aperto a Trento nel
1545 e conclusosi, con alterne
vicende e peregrinazioni
geografiche, quasi venti anni
dopo, nel 1563. Alla base di
entrambe una diffusa percezione
di una chiesa in crisi, corrotta
e compromessa. Questo era stato
il prezzo della sconfitta della
visione politica medioevale,
teocratica ed universalistica,
di Innocenzo III e Bonifacio
VIII, soffocata dall’esuberante
potere delle nascenti monarchie
nazionali, prima tra tutte
quella francese, che piegò
l’autorità pontificia sino a
spostare lontano da Roma, ad
Avignone, la sede del papato
che, per così dire, da
cacciatore, fu ridotto a preda
dei sovrani territoriali. La
cattività avignonese fu il
preludio della moltiplicazione
scismatica dei papi, facilmente
imposti dalla volontà esterna
dei principi più potenti. La
violenta scossa morale,
suscitata dalla peste del 1348,
che uccise, si calcola, un terzo
della popolazione europea, acuì
impietosamente, nella percezione
collettiva, il senso di
inadeguatezza della chiesa. Lo
scisma fu vinto in concilio: i
cardinali ed i vescovi, riuniti,
ricondussero all’unicità il
papato, la cui autorità risultò
però inevitabilmente minorata
rispetto a quella del concilio
stesso. Da qui la costante
diffidenza con cui il pontefice
era solito guardare ai concili,
diffidenza che spiega anche il
lungo indugio che precedette la
convocazione dello stesso
concilio tridentino.
I papi tentarono di ricostruire
la propria autorità,
accordandosi con le nuove realtà
politiche emergenti. È la
cosiddetta politica dei
concordati: i pontefici, per
guadagnare il favore dei
principi, cedono loro benefici
economici ed il privilegio di
nominare vescovi. Ne consegue la
progressiva separazione tra
ufficio e beneficio: il sovrano
assegna incarichi (uffici)
ecclesiastici ad uomini di sua
fiducia che percepiscono il
reddito spettante alla carica
(beneficio) ma, come accadeva
per lo più, erano, per
formazione ed attitudine,
inadatti e disinteressati a
svolgere il compito loro
affidato, sbrigato in loro vece,
da altri che non ne ricevevano
il meritato compenso. Per
recuperare parte della
disponibilità economica ceduta,
i pontefici perfezionarono poi
meccanismi burocratici e
teologici che normalizzarono, ad
esempio, le sanatorie di
irregolarità canoniche con multe
o la vendita delle celebri
indulgenze.
Inevitabile conseguenza fu il
diffondersi di appelli alla
riforma e l’alzarsi di proteste
progressivamente sempre più
violente. Tra esse quella di
Martin Lutero, agostiniano
tedesco. Nel clima generale di
sfiducia e critica
antiecclesiastica, il
luteranesimo raccolse ampi
consensi e simpatie, anche tra
gli umanisti: Erasmo e
Guicciardini ne possono essere
emblematici esempi.
Fu presto chiaro che se non si
fosse affrontato con rigore il
problema, il movimento di
protesta, già montato in vera e
propria eresia, avrebbe potuto
mettere in serio pericolo il
cattolicesimo europeo. Su
pressione dell’imperatore, che
avvertiva con particolare
acutezza il pericolo politico di
una spaccatura della fede
nell’Impero, vinte le diffidenze
papali, fu dunque convocato
finalmente il concilio. Da
subito, insieme alla componente
riformatrice, da lungo tempo
invocata ed attesa da molti,
volta a sanare gli abusi e gli
eccessi di una chiesa
compromessa con i potentati
territoriali, emerse la volontà
di frenare l’avanzamento
dell’eresia, attivando efficaci
meccanismi di controllo e di
repressione. È quanto la
storiografia ha tradizionalmente
indicato con il termine di
controriforma. Tra gli strumenti
di controllo messi a punto dal
concilio, l’obbligo per i
parroci di tenere registri
parrocchiali fu tra i più utili
e fortunati.
Iniziarono così a sedimentarsi
negli archivi delle parrocchie,
tra gli altri, registri di
battesimo, di matrimonio, di
cresima e di stato d’anime. In
questi ultimi erano solitamente
censiti tutti i parrocchiani, in
età da comunione, raggruppati
per famiglia, visitati dal
curato prima di ogni Pasqua. Era
così facile individuare quanti,
nell’imminente festività, non
avrebbero adempiuto il precetto
eucaristico.
Gli archivi parrocchiali
permettevano insomma di
evidenziare facilmente i
possibili rischi di diffusione
dell’eresia, consentendo di
arginare i pericoli
tempestivamente. Oggi, perso
l’uso originario, per la
ricchezza delle informazioni
raccolte, hanno acquisito una
preziosità storica
incalcolabile.
Soltanto alcuni aspetti: in
un’Europa da una parte sempre
meno legata alla religione
tradizionale, dall’altra
frequentata da fedi un tempo
inimmaginabili in questo
territorio, come la mussulmana,
o da nuove correnti filosofiche,
come il buddismo, gli archivi
restano testimoni di un passato
in cui le comunità aderivano
profondamente al cattolicesimo
nella loro pressoché completa
totalità.
Non si può poi negare il valore
genealogico di questi archivi
(soprattutto per famiglie che
non hanno antenati illustri) con
risvolti anche più pratici:
basti considerare le numerose
richieste di certificati da
parte dei discendenti di
emigrati italiani nell’America
latina, per l’ottenimento della
cittadinanza, o la necessità di
ricostruire mappe genetiche per
la ricerca medica.
Pur con tutte le cautele del
caso (il giorno del battesimo,
ad esempio, non coincide con il
giorno della nascita) gli
archivi parrocchiali
rappresentano inoltre una
privilegiata fonte demografica e
socioeconomica. Studiando i
dati, come bene dimostra
Gabrovec, è possibile trarre
alcune fondamentali osservazioni
generali in questi ambiti di
ricerca.
È facile notare innanzitutto che
l’età media dei defunti a Buto,
sino al secondo dopoguerra,
rimane stabile, mediamente
intorno ai 55-60 anni, con alti
tassi di mortalità infantile,
uniti ad una natalità molto
elevata.
L’economia pare quasi
esclusivamente agricola, in
un’Europa che, in età moderna,
vive di agricoltura per il
70-75%.
Si possono inoltre rilevare
altissimi tassi di
analfabetismo: in tutto il XIX
secolo soltanto 4 sono i padri
letterati.
Gli archivi descrivono dunque il
secolare ripetersi di un
medesimo ritmo di vita, che,
oltre le tradizionali fratture
individuate nella storia
italiana ed europea, come il
diffondersi delle nuove idee
rivoluzionarie, sotto l’impeto
delle armate francesi, replica
se stesso almeno sino
all’industrializzazione italiana
degli anni del boom economico,
unica vera rivoluzione
percettibile a Buto, analizzando
queste fonti demografiche. Come
autorevolmente ha mostrato lo
storico Fernand Braudel, la vita
quotidiana non segue, per lo
più, i tempi convulsi della
storia evenemenziale; non si
spezza con i mutamenti, anche
violenti di governo o con i
devastanti passaggi delle
guerre. La civiltà materiale ha
tempi di lunga durata. A Buto,
come in molte altre aree
d’Europa, il cosiddetto “antico
regime”, di cui tutti i manuali
celebrano il termine con la
Rivoluzione francese, perdura,
come si vede, per certi aspetti,
ben oltre la rivoluzione stessa,
o la prima guerra mondiale
(altro mutamento epocale che un
altro storico, Arno Mayer,
suggeriva di adottare come
discrimine tra modernità e
contemporaneità).
È possibile abbozzare con
maggiore definizione il quadro
di questo “antico regime” di
lunga durata a Buto, ampliando
lo sguardo sull’archivio
vescovile che ci può offrire
l’impressione di un visitatore
esterno, cittadino, esponente
del ricco centro dirigente.
L’osservazione dei vescovi,
probabilmente molto simile alla
nostra contemporanea, pare
colpita soprattutto dalla
miseria di comunità come Buto:
così è attestato dalle relazioni
delle visite pastorali, seconda
grande fonte del volume di
Gabrovec.
Anche la pratica della visita
pastorale, come la tenuta dei
registri parrocchiali, risale al
concilio di Trento che
prescrisse ai vescovi di
visitare le parrocchie della
propria diocesi per osservare
personalmente il loro stato
morale e materiale. Delle visite
compiute si faceva redigere
memoria per lasciare ai
successori utili indicazioni.
Se, per semplificazione,
volessimo generalizzare la
complessità delle informazioni
raccolte nelle visite pastorali,
da lunghissimo tempo ormai
oggetto di studio e
consultazione, potremmo notare,
seguendo uno storico tedesco,
che il vescovo punta la sua
attenzione lungo due direttrici:
da una parte lo stato materiale
degli edifici, dei loro arredi,
della loro amministrazione (visitatio
rerum), dall’altra l’esame del
clero (soprattutto dal punto di
vista del corretto adempimento
dei suoi obblighi) e dei laici (visitatio
hominum). Eppure, tra le righe,
pare spesso possibile rilevare
quasi anche le personali
impressioni dei prelati. Ecco
dunque il vescovo Lomellini, nel
1726, costretto a vestirsi “in
una stalla”, “per non esservi la
canonica”, talmente colpito
dalla povertà della chiesa da
concludere: “harei dovuto
sospendere il parroco o
provedere in altro modo, ma
l’impossibilità di trovare
l’economo per la povertà della
parrocchia e popolo m’impedì il
farlo e ne meno stimai, attesa
la lontananza, riunire questa
chiesa a quella di Costola”.
Comportamento simile è
ravvisabile in mons. Tatis che,
visitando Buto nel 1757 tra “il
pochissimo popolo concorsovi”,
avrebbe voluto inizialmente
prescrivere alcune migliorie ma
“attesa la povertà della chiesa
e del popolo situato alle falde
del Montegotto, riflettendo alla
miseria, non venne a fare
decreto né ordinazione alcuna”.
La faticosa quotidianità della
comunità agricola, compresa dai
vescovi, era spezzata
occasionalmente dalle feste
tradizionali, celebrate “con
quella solennità che è
possibile”, come indicò il
rettore Giovanni Battista
Pietronave nel 1821, con
percettibile tono forse di
rassegnata commiserazione.
Innanzitutto si onorava il
patrono, S. Pietro “del quale se
ne celebra la festa il 29 giugno
per consuetudine. Si canta messa
e al vespro si dà la benedizione
col SS. Sacramento”, scrive il
rettore Stefano Besagno nel
1757. Quindi, nella prima
domenica dopo l’8 settembre, la
festa della Madonna del
Soccorso, cui fu dedicato un
altare, completato nel 1762. Poi
la processione del Corpus Domini
e le rogazioni, seguite con
particolare devozione
soprattutto nelle comunità
agricole.
Tutte le domeniche dell’anno
invece era celebrata la messa,
preceduta dall’illustrazione del
catechismo.
Rilevante infine il culto dei
defunti, con l’istituzione di
legati. Nel 1917 quelli perpetui
erano 11.
Soltanto nel 1911 fu invece
fondata una confraternita,
istituzione fondamentale, in
antico regime, per l’erogazione
dell’assistenza pubblica e per
la partecipazione laicale alla
vita ecclesiastica, dedicata a
S. Pietro. Forse l’esiguità
delle risorse ne impedì, in
precedenza, la costituzione.
L’amministrazione della
parrocchia era affidata ai
massari, denominati, dall’inizio
del XIX secolo, per volontà
napoleonica, fabbriceri (dal
termine francese fabrique,
edificio). La vita religiosa è
movimentata soltanto da piccole
innovazioni. Nel 1923 la
rettoria è innalzata a
prevostura, mentre, dal 1926, la
liturgia è allietata dalla
musica dell’harmonium,
acquistato a Chiavari e
collaudato dal celebre maetro
Campodonico.
In questo quadro così
tratteggiato, stabile per
secoli, effettivamente gli
avvicendamenti evenemenziali
della cosiddetta “grande Storia”
sembrano davvero scorrere quasi
senza fratture: poco più di un
elenco vano di guerre e
potentati, come quello
snocciolato nel 1821, dal
rettore Pietronave che, quasi in
litania, enumera quanti si
successero, sino ad allora, nel
dominio di Buto: “sotto il re di
Piemonte si trova la parrocchia,
nel passato sotto i francesi
alcuni anni e per l’avanti sotto
la repubblica di Genova”.
Soltanto i francesi forse
lasciarono un segno maggiore:
fu, ad esempio istituito,
secondo le nuove disposizioni
governative, il cimitero lontano
dal paese, anche se, nota sempre
il rettore Pietronave, spesso i
morti “si seppelliscono ancora
nella chiesa per non poter
portare i cadaveri al cimiterio
per causa di pioggia e altro
tempo cattivo perché è distante
dalla chiesa”.
Come i governi passano carestie,
colera, guerre: le due
d’indipendenza (e Buto ha un
protagonista di queste pagine
risorgimentali, Gaetano Ghiorzi)
e le due mondiali.
Soltanto dopo la seconda guerra
mondiale, come già notato, si
registra una svolta: anche Buto
infatti vive l’epocale passaggio
di tutta la nazione da un mondo
agricolo ad un nuovo mondo
industriale.
La vita si allunga ma il paese
si spopola: e la memoria viva
sostituisce ormai le carte.
Tutti questi trecentocinquanta
anni, di cui resta traccia negli
archivi e nella vita, è
assorbita oggi in questo
presente festoso, in questa
giornata che riscatta e sublima
i secoli, spesso di povertà,
sempre di vita, che ci hanno
preceduto. La storia non è mai,
non deve essere mai, in
ciascuno, divisa dal presente:
essa è parte del presente e
strumento insieme di crescita
verso il futuro.
Non mi resta dunque che augurare
a Buto un lungo futuro.
Buto ne ha la forza: la sua
forza è anche una rincorsa di
tre secoli e mezzo.
Il suo slancio non potrà che
vincere in fondo le nebbie
lontane di una lunga posterità.
Riccardo Barotti |