Relazione Prof. Riccardo Barotti

 
 

Buto 1657 - 2007.
Modestissima introduzione a tre secoli e mezzo di storia, tra antico regime e modernità, dalle carte degli archivi parrocchiale e diocesano

 

 

Eccellenza, signor prevosto, signor sindaco, signore e signori, buon pomeriggio.
Il ricordo consapevole dei molti ieri che hanno preceduto la nostra quotidianità rende da una parte più profondi, dall’altra più liberi, i nostri giorni e i nostri luoghi, troppo spesso sentiti come spenti soltanto perché incompresi. Per questo credo che ogni occasione di ricordo del nostro passato, come questa, sia sempre utile ed importante. Ringrazio dunque cordialmente per il graditissimo invito a festeggiare oggi qui, insieme a tutti voi, il compleanno, per così dire, della parrocchia di Buto: l’anniversario della sua costituzione. Era infatti il 15 giugno 1657 quando il vescovo di Brugnato, mons. Giovambattista Paggi, decretava lo smembramento di Buto dalla parrocchia di Costola, inaugurando una nuova autonomia ecclesiastica tuttora rigogliosa, come dimostra l’ottima organizzazione di queste giornate celebrative.
La comunità parrocchiale ricorda dunque tre secoli e mezzo di vita: un ricchissimo bagaglio culturale che si innesta del resto su una storia più antica, millenaria, anch’essa leggibile ancora, seppure con maggiore fatica, nel nostro presente.
Intorno a noi si possono evocare tracce di insediamenti liguri (persino suoni della lingua di questa popolazione sopravvivono, come fossili, nei nostri dialetti), poi liguri-romani. Le intitolazioni delle chiese lasciano supporre si siano susseguite presenze prima bizantine (è ipotizzata, a Focetta, la dedica della chiesa a S. Pantaleone, mentre non lontano, a Teviggio, la parrocchiale porta il titolo di S. Quirico), poi longobarde (S. Michele). È del resto proprio sotto la protezione dei longobardi che, da Bobbio, i monaci irlandesi di S. Colombano irradiarono i loro insediamenti civilizzatori, diffondendo capillarmente la coltura della terra, lungo la dorsale appenninica, strada naturale, facilmente percorribile, anche senza rilevanti interventi di manutenzione, dopo l’eclissi dell’impero romano, monumentale costruttore della prima rete viaria europea.
Ai Longobardi successero i Franchi che radicarono il feudalesimo. Il territorio fu organizzato nella marca degli Obertenghi e da questi ultimi concesso in vassallaggio ai Fieschi, cui praticamente rimase sino all’età moderna, quando, dopo il fallimento della celebre congiura, contro Andrea Doria (1547), detta appunto dei Fieschi, perché da loro capeggiata, fu inglobato nel dominio della Repubblica di Genova.
Tutte questi complessi avvicendamenti, che paiono ancora più repentini in una succinta esposizione come quella appena conclusa e riflettono, nelle nostre valli, i riverberi dei più vasti mutamenti storici europei, sono ben delineati, nonostante le grandi difficoltà dovute alla penuria di studi dedicati al territorio, nel volume di Gabrovec, opera che la parrocchia riceve oggi come il più illustre tra i doni di compleanno.
Veri protagonisti della ricerca di Gabrovec sono tuttavia gli archivi della parrocchia di Buto e della diocesi di Brugnato, quest’ultimo oggi conservato nell’Archivio storico diocesano che ha sede in Sarzana; archivi nati entrambi nello spirito del concilio tridentino, fragili testimoni di fede e di vita secolari.
Ho dunque creduto opportuno dedicare il mio piccolo intervento principalmente ad un sintetico inquadramento generale di queste due fonti storiche, per favorirne –questo almeno è l’auspicio una migliore comprensibilità, riservandomi tuttavia ancora un breve spazio per proporre una modesta chiave di lettura delle informazioni raccolte nei due archivi. Ho preferito invece non avventurarmi in una rassegna delle millenarie vicende storiche dell’insediamento di Buto, sia perché troppo tempo richiederebbe un’esposizione problematica, per quanto rapida, di tracce millenarie (che, a mio giudizio, occorrerebbe studiare ancora approfonditamente, con l’aiuto, tra l’altro, di discipline altamente specialistiche, a me ignote, come, prima fra tutte, l’archeologia medioevale) sia, soprattutto, e già si è detto, perché il volume, che oggi viene presentato al pubblico, delinea già chiaramente la storia di questo territorio e le mie parole non potrebbero risultarne che una brutta ed inutile copia
Premessa necessaria alla nostra conversazione è determinare cosa sia un archivio. Giova probabilmente ricorrere all’insegnamento classico dell’archivistica, secondo il quale si definisce archivio un insieme organico di documenti prodotti da un ente nell’esercizio delle sue funzioni. È possibile dedurre immediatamente due considerazioni. La prima: un archivio non si può costruire, come una biblioteca, ma nasce quasi spontaneamente, per sedimentazione, dall’attività concreta di un ente. La seconda: un archivio conserva testimonianza degli atti giuridici di cui l’ente produttore è autore, dunque il valore della documentazione archivistica come fonte storica è ben diverso da quello che può avere una memoria od un ricordo individuali.
È a questo punto ormai ovvio che per meglio comprendere un archivio ed i documenti di cui è composto, è dunque necessario studiare la storia dell’ente che lo ha prodotto.
L’archivio parrocchiale e l’archivio vescovile, dal pieno Cinquecento, sono, come già accennato, emanazioni dello spirito riformatore del concilio di Trento. Soltanto cercando di comprendere questo spirito ormai lontano, ma mai spento, anche dopo il tempestoso afflato innovatore del concilio Vaticano II, è quindi possibile leggere le fonti con una visuale più proficua.
Riforma e controriforma: semplificando forse troppo semplicisticamente, si potrebbe sostenere, che queste due siano le nature che animano il concilio aperto a Trento nel 1545 e conclusosi, con alterne vicende e peregrinazioni geografiche, quasi venti anni dopo, nel 1563. Alla base di entrambe una diffusa percezione di una chiesa in crisi, corrotta e compromessa. Questo era stato il prezzo della sconfitta della visione politica medioevale, teocratica ed universalistica, di Innocenzo III e Bonifacio VIII, soffocata dall’esuberante potere delle nascenti monarchie nazionali, prima tra tutte quella francese, che piegò l’autorità pontificia sino a spostare lontano da Roma, ad Avignone, la sede del papato che, per così dire, da cacciatore, fu ridotto a preda dei sovrani territoriali. La cattività avignonese fu il preludio della moltiplicazione scismatica dei papi, facilmente imposti dalla volontà esterna dei principi più potenti. La violenta scossa morale, suscitata dalla peste del 1348, che uccise, si calcola, un terzo della popolazione europea, acuì impietosamente, nella percezione collettiva, il senso di inadeguatezza della chiesa. Lo scisma fu vinto in concilio: i cardinali ed i vescovi, riuniti, ricondussero all’unicità il papato, la cui autorità risultò però inevitabilmente minorata rispetto a quella del concilio stesso. Da qui la costante diffidenza con cui il pontefice era solito guardare ai concili, diffidenza che spiega anche il lungo indugio che precedette la convocazione dello stesso concilio tridentino.
I papi tentarono di ricostruire la propria autorità, accordandosi con le nuove realtà politiche emergenti. È la cosiddetta politica dei concordati: i pontefici, per guadagnare il favore dei principi, cedono loro benefici economici ed il privilegio di nominare vescovi. Ne consegue la progressiva separazione tra ufficio e beneficio: il sovrano assegna incarichi (uffici) ecclesiastici ad uomini di sua fiducia che percepiscono il reddito spettante alla carica (beneficio) ma, come accadeva per lo più, erano, per formazione ed attitudine, inadatti e disinteressati a svolgere il compito loro affidato, sbrigato in loro vece, da altri che non ne ricevevano il meritato compenso. Per recuperare parte della disponibilità economica ceduta, i pontefici perfezionarono poi meccanismi burocratici e teologici che normalizzarono, ad esempio, le sanatorie di irregolarità canoniche con multe o la vendita delle celebri indulgenze.
Inevitabile conseguenza fu il diffondersi di appelli alla riforma e l’alzarsi di proteste progressivamente sempre più violente. Tra esse quella di Martin Lutero, agostiniano tedesco. Nel clima generale di sfiducia e critica antiecclesiastica, il luteranesimo raccolse ampi consensi e simpatie, anche tra gli umanisti: Erasmo e Guicciardini ne possono essere emblematici esempi.
Fu presto chiaro che se non si fosse affrontato con rigore il problema, il movimento di protesta, già montato in vera e propria eresia, avrebbe potuto mettere in serio pericolo il cattolicesimo europeo. Su pressione dell’imperatore, che avvertiva con particolare acutezza il pericolo politico di una spaccatura della fede nell’Impero, vinte le diffidenze papali, fu dunque convocato finalmente il concilio. Da subito, insieme alla componente riformatrice, da lungo tempo invocata ed attesa da molti, volta a sanare gli abusi e gli eccessi di una chiesa compromessa con i potentati territoriali, emerse la volontà di frenare l’avanzamento dell’eresia, attivando efficaci meccanismi di controllo e di repressione. È quanto la storiografia ha tradizionalmente indicato con il termine di controriforma. Tra gli strumenti di controllo messi a punto dal concilio, l’obbligo per i parroci di tenere registri parrocchiali fu tra i più utili e fortunati.
Iniziarono così a sedimentarsi negli archivi delle parrocchie, tra gli altri, registri di battesimo, di matrimonio, di cresima e di stato d’anime. In questi ultimi erano solitamente censiti tutti i parrocchiani, in età da comunione, raggruppati per famiglia, visitati dal curato prima di ogni Pasqua. Era così facile individuare quanti, nell’imminente festività, non avrebbero adempiuto il precetto eucaristico.
Gli archivi parrocchiali permettevano insomma di evidenziare facilmente i possibili rischi di diffusione dell’eresia, consentendo di arginare i pericoli tempestivamente. Oggi, perso l’uso originario, per la ricchezza delle informazioni raccolte, hanno acquisito una preziosità storica incalcolabile.
Soltanto alcuni aspetti: in un’Europa da una parte sempre meno legata alla religione tradizionale, dall’altra frequentata da fedi un tempo inimmaginabili in questo territorio, come la mussulmana, o da nuove correnti filosofiche, come il buddismo, gli archivi restano testimoni di un passato in cui le comunità aderivano profondamente al cattolicesimo nella loro pressoché completa totalità.
Non si può poi negare il valore genealogico di questi archivi (soprattutto per famiglie che non hanno antenati illustri) con risvolti anche più pratici: basti considerare le numerose richieste di certificati da parte dei discendenti di emigrati italiani nell’America latina, per l’ottenimento della cittadinanza, o la necessità di ricostruire mappe genetiche per la ricerca medica.
Pur con tutte le cautele del caso (il giorno del battesimo, ad esempio, non coincide con il giorno della nascita) gli archivi parrocchiali rappresentano inoltre una privilegiata fonte demografica e socioeconomica. Studiando i dati, come bene dimostra Gabrovec, è possibile trarre alcune fondamentali osservazioni generali in questi ambiti di ricerca.
È facile notare innanzitutto che l’età media dei defunti a Buto, sino al secondo dopoguerra, rimane stabile, mediamente intorno ai 55-60 anni, con alti tassi di mortalità infantile, uniti ad una natalità molto elevata.
L’economia pare quasi esclusivamente agricola, in un’Europa che, in età moderna, vive di agricoltura per il 70-75%.
Si possono inoltre rilevare altissimi tassi di analfabetismo: in tutto il XIX secolo soltanto 4 sono i padri letterati.
Gli archivi descrivono dunque il secolare ripetersi di un medesimo ritmo di vita, che, oltre le tradizionali fratture individuate nella storia italiana ed europea, come il diffondersi delle nuove idee rivoluzionarie, sotto l’impeto delle armate francesi, replica se stesso almeno sino all’industrializzazione italiana degli anni del boom economico, unica vera rivoluzione percettibile a Buto, analizzando queste fonti demografiche. Come autorevolmente ha mostrato lo storico Fernand Braudel, la vita quotidiana non segue, per lo più, i tempi convulsi della storia evenemenziale; non si spezza con i mutamenti, anche violenti di governo o con i devastanti passaggi delle guerre. La civiltà materiale ha tempi di lunga durata. A Buto, come in molte altre aree d’Europa, il cosiddetto “antico regime”, di cui tutti i manuali celebrano il termine con la Rivoluzione francese, perdura, come si vede, per certi aspetti, ben oltre la rivoluzione stessa, o la prima guerra mondiale (altro mutamento epocale che un altro storico, Arno Mayer, suggeriva di adottare come discrimine tra modernità e contemporaneità).
È possibile abbozzare con maggiore definizione il quadro di questo “antico regime” di lunga durata a Buto, ampliando lo sguardo sull’archivio vescovile che ci può offrire l’impressione di un visitatore esterno, cittadino, esponente del ricco centro dirigente. L’osservazione dei vescovi, probabilmente molto simile alla nostra contemporanea, pare colpita soprattutto dalla miseria di comunità come Buto: così è attestato dalle relazioni delle visite pastorali, seconda grande fonte del volume di Gabrovec.
Anche la pratica della visita pastorale, come la tenuta dei registri parrocchiali, risale al concilio di Trento che prescrisse ai vescovi di visitare le parrocchie della propria diocesi per osservare personalmente il loro stato morale e materiale. Delle visite compiute si faceva redigere memoria per lasciare ai successori utili indicazioni. Se, per semplificazione, volessimo generalizzare la complessità delle informazioni raccolte nelle visite pastorali, da lunghissimo tempo ormai oggetto di studio e consultazione, potremmo notare, seguendo uno storico tedesco, che il vescovo punta la sua attenzione lungo due direttrici: da una parte lo stato materiale degli edifici, dei loro arredi, della loro amministrazione (visitatio rerum), dall’altra l’esame del clero (soprattutto dal punto di vista del corretto adempimento dei suoi obblighi) e dei laici (visitatio hominum). Eppure, tra le righe, pare spesso possibile rilevare quasi anche le personali impressioni dei prelati. Ecco dunque il vescovo Lomellini, nel 1726, costretto a vestirsi “in una stalla”, “per non esservi la canonica”, talmente colpito dalla povertà della chiesa da concludere: “harei dovuto sospendere il parroco o provedere in altro modo, ma l’impossibilità di trovare l’economo per la povertà della parrocchia e popolo m’impedì il farlo e ne meno stimai, attesa la lontananza, riunire questa chiesa a quella di Costola”.
Comportamento simile è ravvisabile in mons. Tatis che, visitando Buto nel 1757 tra “il pochissimo popolo concorsovi”, avrebbe voluto inizialmente prescrivere alcune migliorie ma “attesa la povertà della chiesa e del popolo situato alle falde del Montegotto, riflettendo alla miseria, non venne a fare decreto né ordinazione alcuna”.
La faticosa quotidianità della comunità agricola, compresa dai vescovi, era spezzata occasionalmente dalle feste tradizionali, celebrate “con quella solennità che è possibile”, come indicò il rettore Giovanni Battista Pietronave nel 1821, con percettibile tono forse di rassegnata commiserazione. Innanzitutto si onorava il patrono, S. Pietro “del quale se ne celebra la festa il 29 giugno per consuetudine. Si canta messa e al vespro si dà la benedizione col SS. Sacramento”, scrive il rettore Stefano Besagno nel 1757. Quindi, nella prima domenica dopo l’8 settembre, la festa della Madonna del Soccorso, cui fu dedicato un altare, completato nel 1762. Poi la processione del Corpus Domini e le rogazioni, seguite con particolare devozione soprattutto nelle comunità agricole.
Tutte le domeniche dell’anno invece era celebrata la messa, preceduta dall’illustrazione del catechismo.
Rilevante infine il culto dei defunti, con l’istituzione di legati. Nel 1917 quelli perpetui erano 11.
Soltanto nel 1911 fu invece fondata una confraternita, istituzione fondamentale, in antico regime, per l’erogazione dell’assistenza pubblica e per la partecipazione laicale alla vita ecclesiastica, dedicata a S. Pietro. Forse l’esiguità delle risorse ne impedì, in precedenza, la costituzione.
L’amministrazione della parrocchia era affidata ai massari, denominati, dall’inizio del XIX secolo, per volontà napoleonica, fabbriceri (dal termine francese fabrique, edificio). La vita religiosa è movimentata soltanto da piccole innovazioni. Nel 1923 la rettoria è innalzata a prevostura, mentre, dal 1926, la liturgia è allietata dalla musica dell’harmonium, acquistato a Chiavari e collaudato dal celebre maetro Campodonico.
In questo quadro così tratteggiato, stabile per secoli, effettivamente gli avvicendamenti evenemenziali della cosiddetta “grande Storia” sembrano davvero scorrere quasi senza fratture: poco più di un elenco vano di guerre e potentati, come quello snocciolato nel 1821, dal rettore Pietronave che, quasi in litania, enumera quanti si successero, sino ad allora, nel dominio di Buto: “sotto il re di Piemonte si trova la parrocchia, nel passato sotto i francesi alcuni anni e per l’avanti sotto la repubblica di Genova”.
Soltanto i francesi forse lasciarono un segno maggiore: fu, ad esempio istituito, secondo le nuove disposizioni governative, il cimitero lontano dal paese, anche se, nota sempre il rettore Pietronave, spesso i morti “si seppelliscono ancora nella chiesa per non poter portare i cadaveri al cimiterio per causa di pioggia e altro tempo cattivo perché è distante dalla chiesa”.
Come i governi passano carestie, colera, guerre: le due d’indipendenza (e Buto ha un protagonista di queste pagine risorgimentali, Gaetano Ghiorzi) e le due mondiali.
Soltanto dopo la seconda guerra mondiale, come già notato, si registra una svolta: anche Buto infatti vive l’epocale passaggio di tutta la nazione da un mondo agricolo ad un nuovo mondo industriale.
La vita si allunga ma il paese si spopola: e la memoria viva sostituisce ormai le carte.
Tutti questi trecentocinquanta anni, di cui resta traccia negli archivi e nella vita, è assorbita oggi in questo presente festoso, in questa giornata che riscatta e sublima i secoli, spesso di povertà, sempre di vita, che ci hanno preceduto. La storia non è mai, non deve essere mai, in ciascuno, divisa dal presente: essa è parte del presente e strumento insieme di crescita verso il futuro.
Non mi resta dunque che augurare a Buto un lungo futuro.
Buto ne ha la forza: la sua forza è anche una rincorsa di tre secoli e mezzo.
Il suo slancio non potrà che vincere in fondo le nebbie lontane di una lunga posterità.
                                                                                                                                                                                Riccardo Barotti

PICCOLI SUGGERIMENTI DI LETTURA:
La relazione, che ricalca la conversazione tenuta nella parrocchia di Buto il 19 agosto 2007, non è dotata di note critiche, rispecchiando l’estemporaneità dell’intervento. Si potranno verificare ed approfondire gli argomenti accennati sfogliando le piccole note bibliografiche sotto riportate.

Bloch M., Apologia della storia, Torino, Einaudi, 1969.
Marrou H.I., La conoscenza storica, Bologna, Il Mulino, 1988.
Braudel F., Civiltà materiale, economia e capitalismo, Torino, Einaudi, 1982.
Prosperi A., Storia moderna e contemporanea. I. Dalla Peste nera alla guerra dei tren’anni, Torino, Einaudi, 2000.
Prosperi A., Il Concilio di Trento: un’introduzione storica, Torino, Einaudi, 2001.
Tomaini P., Brugnato città abbaziale e vescovile, Città di castello, Unione Arti Grafiche, 1957.
Freggia E., Foglie Sparse, Sarzana, 2002, in particolare l’articolo I libri parrocchiali della diocesi della Spezia-Sarzana-Brugnato, pp. 44-49.
L’antica diocesi di Brugnato nelle visite pastorali dei vescovi Lomellini e Tatis. Luoghi della Val di Vara e del Tigullio nel XVIII secolo, attraverso  le carte dell’Archivio Vescovile, Sarzana, 2006.
Buto (nell’alta Val di Vara), a c. di Gabrovec S. e De Mattei L., Buto, 2002.
Buto in cammino, a c. di Gabrovec S. e De Mattei L., Buto, 2007.

 

 

 

  


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